FUKUSHIMA: Un nuovo disastro ambientale?

Stando a quanto riportato negli scorsi giorni da numerose agenzie di stampa internazionali, il Governo giapponese starebbe valutando l’ipotesi di riversare in mare, nell’oceano Pacifico l’acqua contaminata e radioattiva del disastro nucleare avvenuto nella centrale di Fukushima nel 2011. L’ipotesi, al vaglio dallo scorso aprile, “risolverebbe” il problema dell’acqua contaminata usata per raffreddare gli impianti danneggiati nella catastrofe: dal 2022 circa 1,23 milioni di tonnellate di liquido potrebbero dunque essere rilasciate.

Da nove anni il Giappone si interroga su come smaltire queste acque contaminate, oggi chiuse in 1.044 serbatoi. Fra le ipotesi quelle di usare l’evaporazione in atmosfera o il trasporto in altri appositi serbatoi e container, soluzioni però temporanee. E proprio per questo si è arrivati ad ipotizzare lo sversamento in mare del liquido contaminato. Riversare una quantità così ingente, oltre che suscitare forte scetticismo da parte di varie associazioni ambientaliste e numerosi esperti, è un’ipotesi fortemente criticata a livello internazionale per l’impatto, difficile da prevedere, sull’ecosistema, già sconvolto dai fatti del 2011 (nell’ordine terremoto, tsunami e conseguente disastro nucleare) e che solo adesso è in leggera ripresa dopo anni così complessi.

Nel 2017 l’Alta Corte di Sendai aveva condannato il Governo giapponese e la Tokyo Electric Power a rimborsare gli abitanti della zona di Fukushima. Ciò non per “disastro ambientale” (come sarebbe potuto accadere in Italia); la sentenza, infatti, si poggiava su tre aspetti: la prevedibilità del verificarsi dello tsunami, l’efficacia delle contromisure adottate per prevenire il disastro, e l’equità sul valore dei compensi ai residenti pattuiti dal Governo. La sentenza prevedeva esclusivamente una multa, estremamente onerosa, ma che non serviva a ricostruire a pieno le responsabilità dei singoli su un piano penale.

Facendo un parallelismo con l’Italia, l’art. 452 quater c.p. denominato appunto “Disastro Ambientale” è stato introdotto nel nostro panorama giuridico nel 2015 proprio per evitare situazioni similari e, nel caso, punire i colpevoli, in un Paese che ha un’esperienza decennale di formazione giuridica e un’amplissima letteratura e giurisprudenza su argomenti così delicati come le tematiche ambientali legate alla responsabilità dei singoli, anche grazie ai numerosi cosiddetti toxic cases quali il processo Eternit, ILVA, Porto Marghera, Montedison, solo per citare i maggiori.

L’articolo in questione punisce chi altera, irreversibilmente, l’equilibrio di un ecosistema o chi, attraverso la sua azione, compie una modificazione tale da rendere troppo oneroso o troppo complesso il ritorno alla situazione precedente dell’ecosistema. La protezione dello stato dei luoghi è un obiettivo da perseguire, con dure sentenze penali, non solo con multe ed indennizzi.
A ciò, che rappresenta sicuramente la conseguenza più grave e di maggiore impatto, purtroppo estremamente sottostimata dall’autorità nipponiche, va inoltre aggiunto come la zona di Fukushima è ricca di allevamenti ittici e fortemente interessata dalla pesca, che rappresenta una delle attività più fiorenti del territorio. Un evento come quello che si profila avrebbe conseguenze nefaste per l’intera area anche sotto il profilo economico, minando anche i rapporti, già tesi, con la Korea, maggiore importatrice proprio dei prodotti di Fukushima. In mare gli inquinanti si diffondono con estrema facilità depositandosi sul fondo e restando in sospensione e con altrettanta facilità entrano nella catena alimentare e, a causa delle le loro proprietà tossiche anche cancerogene, causano danni diretti alle specie marine, e arrivano sulle nostre tavole. L’Italia, sempre per tornare al nostro parallelismo, sarebbe in questo caso tutelata a fronte dell’art. 439 c.p., che prevede il reato di avvelenamento di acque o di sostanze alimentari, volto a punire chiunque avvelena acque o sostanze destinate all’alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo. Ancora si può citare l’art. 674 c.p. (getto pericoloso di cose), che, attraverso un ampliamento delle fattispecie punite, è stato ricollegato alla tutela delle acque dall’inquinamento (v. Cass. pen., sez. III 1° luglio 2003, n. 37945).

Il parallelismo tra i due sistemi, quello giapponese e quello italiano, non vuole essere un confronto di puro diritto: vuole sottolineare come soluzioni alternative, ma allo stesso repentine nella risposta, possono e devono essere perseguite. Occorre rendersi conto di come una tutela maggiore nei confronti di situazioni così delicate deve essere attuata a livello internazionale come nuova sfida, senza addivenire alla soluzione più semplice e, in questo caso, pericolosa.

Simone Spinelli
Trainee Lawyer, Studio Napoletano Ficco & Partners

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