Il 16 aprile 2021 veniva presentata, d’iniziativa di taluni deputati eletti con partiti di centro-destra, la proposta di legge n. 3024 volta ridefinire il perimetro dei reati di omesso versamento di ritenute dovute o certificate o dell’imposta sul valore aggiunto previsti degli artt. 10-bis e 10-ter d.lgs. 74/2000.
In particolare la stessa, alla luce della crisi che, specialmente nella fase pandemica in atto, colpisce molte partite iva e imprese, ha lo scopo di inserire in tali fattispecie il dolo specifico di «evadere l’obbligazione tributaria» in luogo del dolo generico ad oggi richiesto e di introdurre una causa di non punibilità per chi «commetta il fatto per impossibilità della prestazione a lui non imputabile».
Trattasi di norma evidentemente riflettuta per quegli imprenditori che versano in una profonda c.d. crisi di liquidità, dovuta ad una situazione oggettivamente imprevedibile – la pandemia che ormai da quasi due anni imperversa in maniera più o meno continua – e che si trovino dinnanzi a scelte obbligate tra il pagamento dei tributi dovuti o quello delle materie prime e dei dipendenti, necessari per la continuità aziendale.
Basti pensare, per dimostrare lo stato di crisi attuale, che Fipe-Confcommercio ha di recente elencato, in un passaggio di una lettera inviata ai Ministeri del Lavoro e del Turismo, i numeri del decremento dei consumi in Italia nell’ultimo biennio nel settore della ristorazione: “nel 2020 i consumi nella ristorazione sono calati del 37,4%, ovvero 32 miliardi di euro in meno rispetto al 2019. E se si aggiunge un altro 28% perduto nel 2021, sempre rispetto all’anno pre pandemia, di miliardi se ne debbono aggiungere altri 24, per un totale di 56 miliardi di euro in meno spesi da famiglie e turisti, italiani e stranieri, all’interno dei pubblici esercizi. Il che si traduce in 45mila imprese scomparse in meno di due anni e 300mila lavoratori che hanno perduto l’impiego”.
Orbene, considerato che la proporzione di tali dati risulta endemica in molte aree di impresa, la ratio ispiratrice della proposta legislativa in commento deve essere valutata con estremo favore, valutati a fortiori gli orientamenti estremamente stringenti della Suprema Corte sul tema.
Occorre difatti ricordare che, in merito ai casi della c.d. crisi di liquidità delle imprese, la Cassazione citata in premessa nel testo in commento (Sez. III, 16 ottobre 2019, n. 42522), che esclude la configurazione del reato nei casi in cui la somma dovuta all’erario venga stornata ad altri fini (pagamento manodopera o fornitori), risulta pronuncia estremamente isolata e contrastante con la granitica giurisprudenza della Suprema Corte, che non ritiene invocabile in tali ipotesi lo stato di necessità ex 54 c.p. o la forza maggiore ai sensi dell’art. 45 c.p.
Essa, in particolare, considera scriminata la condotta dell’imprenditore esclusivamente nei marginali casi di straordinaria impossibilità della prestazione non imputabile al debitore, quali una rapina subita fuori dalla banca prima di adempiere, il 26 del mese di dicembre, l’obbligazione tributaria, o dei pagamenti all’erario che, sebbene non integrali, vengano effettuati con tutto il patrimonio non solo societario ma anche personale del soggetto.
Il tutto fermo restando la responsabilità tributaria e finanziaria di quest’ultimo, il quale vede assottigliarsi concretamente le possibilità di proseguire la propria attività di impresa.
Ciò posto, al netto del tentativo della proposta di riforma di mutare in punto di elemento soggettivo tali reati introducendo, in luogo del c.d. dolo generico, quello specifico di evadere l’obbligazione tributaria, è necessario soffermarsi sulla causa di non punibilità potenzialmente introdotta, inquadrabile tra quelle definite dalla dottrina in senso stretto ed introdotta, quindi, per ragioni di opportunità legislativa.
Opportunità evidentemente ragionevole per le ragioni suindicate e collimante con l’ispirazione di fondo del dettato costituzionale previsto dall’art. 41 Costituzione.
Tuttavia ciò che preoccupa è – come spesso purtroppo accade – la modalità tecnico-linguistica con cui il legislatore proponente pensa tale nuova esimente, in quanto non viene fatto alcun cenno all’ipotesi riflettuta alla base della stessa – la indicata crisi di liquidità – ma si usa una formula del tutto generica e mutuata dalla norma civilistica in tema di esenzione della responsabilità del debitore in materia di obbligazioni ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Il rischio dovuto alla citata genericità è quello di abolire di fatto le fattispecie incriminatrici dichiarative ove tale esimente venga interpretata alla lettera (qualsiasi causa imprevedibile endogena o esogena all’impresa potrebbe escludere la punibilità), ovvero, come rischio più concreto, non applicare giammai la stessa alla luce dell’eccessivo margine interpretativo lasciato ai giudici, i quali potrebbero facilmente proseguire con la rigorosa esegesi restrittiva seguita fino ad oggi dalla Cassazione e condannare un imprenditore anche in casi di c.d. crisi di liquidità.
Una soluzione a tale nodo gordiano, qualora il percorso legislativo dovesse proseguire, potrebbe essere quello di emendare la norma introducendo, quale esimente per tale stato di crisi, il c.d. onere di allegazione, già conosciuto in materia di confisca di prevenzione o allargata, consentendo all’imputato, e non all’accusa, di dimostrare nel corso del procedimento (anche in fase di indagine) la legittima causa di impedimento dovuto alla crisi di liquidità in atto che escluderebbe, conseguentemente, la responsabilità penale dell’imprenditore.
Luigi Fimiani