Chi tra noi in questi giorni non si è chiesto, almeno per una volta, “e adesso? Che cosa accadrà?”.
Attendiamo ogni giorno, con ansia e speranza, che la Protezione Civile ci conforti proclamando che il numero dei contagi è minore del giorno prima. Vorrebbe dire essere nella fase calante del contagio; che il nostro sistema sanitario è riuscito dove altri hanno fallito; soprattutto, vorrebbe dire che ce l’abbiamo fatta. Eppure, così non è, almeno non ancora. Non oggi; e forse, è un bene. Perché alla fine di questa epidemia dovremo fermarci tutti – classe politica, economica e professionale – e riflettere su cosa è stato. Dovremo tutti guardarci negli occhi, senza distanze e dirci la verità su quanto accaduto. Siamo stati arroganti. Abbiamo sottovalutato il problema.
D’altronde, c’era da aspettarselo da un paese che ormai ha fatto del relativismo il proprio stile di vita; dove ognuno si sente legittimato a dire la propria e a delegittimare le Istituzioni. Assistiamo, allora, a miriadi di post sui tutti i social network sulla pericolosità del virus e sulle misure più idonee a contrastarne la propagazione fino alla regina di tutti i proclami: “è solo un’influenza!”, solo per ritagliarci un momento di notorietà mentre altri, nel mondo, morivano con l’unica certezza che quella non era un’influenza; e così, in questa confusione informativa, i lavoratori continuavano a recarsi al lavoro e i giovani a frequentare bar, locali, pub, nonostante l’Italia stava scoprendo di essere maledettamente vulnerabile.
Il nemico è arrivato da noi, silente e astuto, come una calamità divina per punire la nostra arroganza e il nostro dispregio per le regole. Ci ha colpito nel nostro momento storico peggiore: sociale, economico e morale. Governi che cambiano in corsa per diventare tecnici; una classe politica senza idee; movimenti popolari che si ergono a paladini di questo o quel valore per poi sparire tra le nebbie (vedi i no-vax); aziende svendute al miglior offerente straniero; un sistema economico perennemente in crisi e una coscienza popolare lontana dall’essere unita attorno ai valori fondanti di questa nazione.
Il Coronavirus ci sta impartendo una dura lezione che per capirla fino in fondo avremo bisogno di tempo. L’Italia è un paese in ginocchio e dobbiamo rialzarci. In molti in questi giorni stanno criticando l’operato del nostro Presidente del Consiglio. Scevro da qualunque posizione politica, a questi rivolgo la mia riflessione: “Cosa avreste fatto di differente?” è facile criticare dall’esterno ma difficile prendere decisioni giuste al momento giusto. A questi ricordo che in situazioni simili non ci sono decisioni giuste o sbagliate, ma solo decisioni: le sorti dell’Italia non passano dalle decisioni di un singolo – il nostro Presidente del Consiglio – ma dalla responsabilità delle gesta di ciascuno di noi.
È a noi stessi che dobbiamo rivolgere il nostro rimprovero: per aver sottovalutato l’arrivo di un nemico feroce e silenzioso; per aver dissentito quelle poche ma semplici regole: “restate a casa!”. Rispettiamo le regole senza timore di perdere ciò che abbiamo. “E adesso? Che cosa accadrà?” Abraham Lincoln diceva che “il modo migliore per prevedere il futuro è crearlo”. Quale occasione migliore di questa per ricominciare a creare un futuro migliore del nostro passato? Troppo spesso ho sentito dire dai giovani “vorrei più autonomia”; “vorrei un’opportunità per dimostrare le mie qualità”.
Ebbene, questo è il momento di dimostrarlo! È il momento di dimostrare che lo smart working non è un palliativo lavorativo per gestire l’emergenza ma il futuro: è la possibilità di mostrare autonomia, libertà e creatività, anticipando con fiducia e responsabilità la nuova vita che ci aspetta, oltre l’emergenza. Soltanto così potremo dare un significato più elevato a questa epidemia e avviare un cambiamento culturale, sociale e lavorativo.
O cadiamo adesso come singoli o risorgiamo insieme come popolo.
Enrico Napoletano