Reati domestici e COVID19: rischi e soluzioni

La quarantena obbligatoria che stiamo vivendo, oltre ad avere evidenti benefici per un interesse primario come quello della salute, rischia di essere una spada di Damocle non solo per la nostra economia ma anche per la proliferazione dei cd reati domestici (es. maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p.) che, purtroppo, statisticamente nella maggioranza dei casi avvengono contro le donne.

Tale ultimo profilo è stato, difatti, evidenziato recentemente dall’ONU, nella persona di Dubravka Simonovic quale relatore speciale per la violenza contro le donne: “per molte donne e bambini la casa può essere un luogo di abuso. Una situazione che si aggrava di gran lunga nei casi di isolamenti come quello imposto nell’emergenza Covid-19”.

L’Italia, come spesso accade in questa materia (da ultimo con l’introduzione del c.d. codice Rosso l. 19 luglio 2019 n. 69), ha immediatamente tentato di contrastare il problema con un duplice intervento. 

In primis, difatti, è stato adottato un provvedimento che ha esteso Youpol – l’app realizzata dalla Polizia di Stato per segnalare episodi di spaccio e bullismo – anche ai reati di violenza che si consumano tra le mura domestiche. L’app è caratterizzata dalla possibilità di trasmettere in tempo reale messaggi ed immagini agli operatori della Polizia di Stato, in modo tale che tutte le segnalazioni vengano direttamente ricevute dalla sala operativa della questura competente per territorio (le segnalazioni sono automaticamente georeferenziate, ma è possibile per l’utente modificare il luogo dove sono avvenuti i fatti).

Inoltre – ed è questa la misura più incisiva – con circolare del 21 marzo 2020, diramata dal Viminale a seguito dei contatti tra i ministri dell’Interno Luciana Lamorgese e il ministro per le Pari opportunità e la Famiglia Elena Bossetti, si invitano i prefetti a “verificare sui territori, anche coinvolgendo i comuni e le associazioni, l’esistenza di soluzioni di alloggio ulteriori, anche temporanee, rispetto a quelle esistenti” e si consente loro di “requisire strutture alberghiere o altri immobili”.

Pertanto le prefetture assumono un ruolo dirimente nell’aiuto dei centri anti violenza e delle case rifugio, per tutelare quelle donne che, per motivi sanitari in applicazione delle misure emergenziali per il contenimento del contagio da Coronavirus, non possono essere accolte.

Tanto chiarito, nel denegato caso in cui un reato domestico venga commesso, occorre chiedersi, in primo luogo, se e come lo stato di emergenza in cui viviamo possa incidere sulla scelta del giudice sul tipo di misura cautelare applicabile all’autore della violenza. 

Occorre premettere, come recentemente affermato in un’ordinanza resa dal Tribunale di Messina il 23 marzo 2020, che, ai fini della corretta scelta della misura cautelare applicabile, in tale fase emergenziale sussista una evidente antinomia tra due valori aventi entrambi copertura costituzionale, quali, da una parte, la necessità di garantire le esigenze cautelari sottese alla legittima emanazione di una misura (art. 13 co. 2 Cost.) e, dall’altra, l’urgenza di tutela della salute della persona (art. 32 Cost.), antinomia risolta, alla stregua dei parametri di adeguatezza e proporzionalità di scelta della misura (art. 275 c.p.p.), nel senso di dare prevalenza, in ogni caso, alla tutela del bene salute.

Tuttavia quest’ultimo inevitabilmente comprende, nei reati domestici, non solo la prevenzione dal rischio di contagio da COVID-19 del marito, ma altresì la tutela dell’incolumità fisica della donna, esigenza che deve essere quantomeno equivalente alla prima.

Pertanto, considerato che nel reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. (reato domestico per antonomasia) il giudice a livello astratto può applicare tutte le misure cautelari coercitive previste dal codice di rito (artt. da 280 a 287 c.p.p.), e che, a seguito dell’entrata in vigore del citato Codice Rosso i tempi per l’applicazione delle stesse sono significativamente ridotti, la decisione della donna di recarsi presso un istituto a lei messo a disposizione o di rimanere presso la propria abitazione come incide sulla scelta della misura cautelare applicabile?

Nel primo caso (donna che, magari senza figli, decide di recarsi presso una casa rifugio o un istituto messo a disposizione dalla prefettura), pare sensato concludere nel senso di applicare al marito maltrattante la misura dell’obbligo di dimora o degli arresti domiciliari (artt. 283 e 284 c.p.p.). In tal modo, difatti, verrebbe applicata una misura proporzionata alla gravità del fatto e – soprattutto – adeguata alle esigenze di salute suindicate.

L’ipotesi, invero, decisamente più problematica è quella contraria, allorché per le più disparate ragioni (es. vicinanza di un figlio o di genitori malati) la donna maltrattata decida di denunciare l’avvenuto reato ma di rimanere presso la propria abitazione.

Premesso che, per evidenti motivi di tutela della salute della donna, non appaiono applicabili le misure che consentano al marito di rimanere presso l’abitazione comune, come noto in tempi precedenti all’avvento della pandemia la misura largamente più applicata per il maltrattante, in tale ipotesi, era quella prevista dall’art. 282 bis c.p.p., ovvero l’allontanamento dalla casa familiare. Misura che, tuttavia, nel caso in cui il soggetto agente non disponga di una seconda abitazione, in tale fase rischierebbe seriamente di cagionare un nocumento alla salute dell’indagato per rischio contagio. Inoltre, pare non adeguata l’applicazione della misura del divieto di dimora, in particolare in comuni rientranti tra i c.d. focolai, dove la fuoriuscita di un soggetto potrebbe determinare un fortissimo rischio di contagio in altri comuni magari meno colpiti. Anche l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art. 281 c.p.p.) non pare applicabile per la prima ragione e perché non comporterebbe comunque l’allontanamento continuo del maltrattante dalla abitazione. Peraltro, anche la misura custodiale in carcere potrebbe essere rischiosa per gli assembramenti che potrebbero verificarsi a cagione della condivisione di spazi angusti con una moltitudine di soggetti (difatti gli atti governativi emanati in tale periodo sono volti alla riduzione dei soggetti detenuti in carcere). 

Anche le recenti proposte della commissione femminicidio del senato alla modifica del Cura Italia, che saranno probabilmente inserite nello stesso, volte a garantire la prosecuzione dell’iter di allontanamento immediato dalla casa familiare per l’autore della violenza, non tengono conto della particolare situazione emergenziale in cui viviamo.

E, quindi, perché non destinare alcune strutture messe a disposizione delle donne da parte della prefettura alla detenzione forzata dei soggetti violenti? In tal modo, allo stesso tempo, potrebbero essere bilanciate tutte le peculiari esigenze di tutela di diritti fondamentali richieste in questo infausto periodo storico.

Luigi Fimiani

Facebook
WhatsApp
Telegram
Twitter
LinkedIn