Responsabilità d.lgs. 231/2001 nel settore sanitario ai tempi del COVID-19

Il periodo infausto che stiamo attraversando, con le conseguenti decisioni governative sul cd. lockdown, rischia seriamente, nei prossimi mesi, di avere ricadute disastrose per l’economia nel nostro paese.

Ricadute che, nel settore sanitario, potrebbero acuirsi nel caso in cui si ritenesse applicabile, alle società miste a partecipazione pubblica che svolgono attività ospedaliera e alle Aziende Sanitarie Locali, la disciplina della responsabilità da reato degli enti ex d.lgs. 231/2001.

L’applicazione nel settore sanitario del d.lgs 231/2001 sulla responsabilità da reato degli enti ha, per diverso tempo, occupato dottrina e giurisprudenza. Il decreto, infatti, se da un lato contempla tra i destinatari gli enti forniti di personalità giuridica e le società e associazioni anche prive di personalità giuridica (articolo 1, comma 2), ricomprendendo così tutti i soggetti privati del settore sanità, dall’altro esclude l’applicabilità della normativa agli «enti pubblici non economici» e a quelli «che svolgono funzioni di rilievo costituzionale» (articolo 1, comma 3), facendo pertanto sorgere la questione se vi siano enti sanitari pubblici, o assimilati, assoggettati al regime 231.

Orbene, la giurisprudenza, quantomeno in riferimento alle società miste a partecipazione (anche superiore al 50 %) pubblica, è orientata verso la risposta positiva.

Ad esempio, la Corte di Cassazione, Seconda Sezione penale, con la sentenza n. 28699 del 9 luglio 2010, ha difatti precisato, in riferimento ad un ospedale costituito in forma di S.p.A., che “la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria, ma non sufficiente, per esonerarlo dalla responsabilità da reato ex dlgs n. 231 del 2001, dovendo altresì concorrere la condizione che lo stesso ente non svolga attività economica” e che “ogni società, in particolar modo le S.p.A., proprio in quanto tale, è costituita pur sempre per l’esercizio di un’attività economica al fine di dividerne gli utili”.

Si tende a far desumere, pertanto, la caratteristica di economicità di una società mista ospedaliera, che legittima, ai sensi dell’art. 1 d.lgs. 231/2001, l’applicazione dello stesso decreto, dalla necessaria finalità lucrativa che la medesima deve perseguire.

Tale conclusione sembra non convincere poichè non necessariamente un ente ospedaliero costituito in forma di società di capitali deve perseguire una finalità lucrativa.

Difatti, tralasciando il fatto che anche nel caso di divisione degli utili gli stessi possono essere adibiti a finalità di utilità sociale, l’aprioristica conclusione citata non pare essere pienamente corretta, poiché è ben possibile, in virtù del fatto che il comparto sanitario è ancora destinatario di discipline settoriali di stampo pubblicistico, che alla società “in mano pubblica” sia attribuito un oggetto sociale del tutto incompatibile con l’esercizio di un’attività profittevole.

Difatti, premesso che un ente pubblico ben può dotarsi di una forma organizzativa societaria, lo scopo di lucro e la gestione imprenditoriale delle risorse di mezzi e personale (propria di ogni Spa) sono concetti ben distinti. Pertanto il sillogismo che opera la giurisprudenza, dirimente nel ritenere “economico” un ente pubblico e nell’applicare, conseguentemente, la disciplina del d.lgs. 231/2001, risulta per tale ragione anacronistico.

E, a fortiori, la medesima conclusione pare doversi riferire alle Aziende Sanitarie locali, le quali, pur avendo perso, a partire dal D.lgs. 7 dicembre 1993 n. 517, il carattere di organo della Regione, acquisendo una propria soggettività giuridica con una autonomia, ed avendo assunto, ex art. 3, comma 1 bis, D.lgs. n. 502/1992, anche carattere imprenditoriale, sono espressamente qualificate, sebbene per taluni fini, dalla legge ancora come pubbliche amministrazioni. Pertanto, nonostante una parte della giurisprudenza amministrativa qualifichi le aziende sanitarie come enti pubblici economici, anche nelle stesse la forma imprenditoriale dell’attività non sembra dirimente ai fini della “economicità” della loro attività e della conseguente applicazione della disciplina 231.

A ciò aggiungasi la genesi storica del decreto: già dalla relazione allo stesso emergeva difatti come il problema della inclusione o esclusione delle aziende ospedaliere tra i destinatari della disciplina fosse tenuto in considerazione dal legislatore.

Si affermava difatti, nel corroborare l’assunto circa l’esclusione della disciplina 231 agli enti pubblici, come le aziende ospedaliere, che erogano un servizio pubblico, che “il Governo ha preferito optare per una soluzione “drastica”, anche nel rispetto delle esigenze di certezza del diritto: esigenza vieppiù viva in un settore, come questo, improntato ad un rigore particolare nella scelta delle risposte sanzionatorie”.

In ogni caso, la questione circa l’applicabilità o meno della disciplina della 231 a tali enti risulta, in concreto e in tale periodo storico, di pregnante rilevanza.

Ci si riferisce, in particolare, alle fattispecie di cui agli artt. 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni personali colpose) c.p., richiamate come reato presupposto dall’art. 25-septies d.lgs. 231/2001, commesse in violazione della normativa a tutela dell’igiene e della sicurezza sul lavoro, di cui al d.lgs. 81/2008.

Fattispecie colpose compatibili con la disciplina 231, come specificato nel caso Thyssenkrupp, sent. 38343/2014, dove si è affermato che “i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi di evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico”, ritenendo, perciò, integrati gli stessi ogniqualvolta si persegua un risparmio di spesa conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza.

Orbene, la riconducibilità dell’infezione contratta da operatori sanitari, in servizio presso la struttura ospedaliera, al sistema di responsabilità apprestato dal T.U. sul lavoro (D.lgs. n. 81/2008) trova conferma nel fatto che secondo l’art. 42, comma 2, del decreto legge n. 18, del 17 marzo 2020 (cosiddetto Decreto Cura Italia) il contagio da Coronavirus deve essere trattato dal datore di lavoro pubblico e privato e dall’Inail come un infortunio.

E, tralasciando la difficoltà di accertare un nesso eziologico, derivante dall’incertezza scientifica circa le peculiarità del virus, tra l’eventuale omissione del datore di lavoro e l’evento lesivo del lavoratore, la morte o la lesione accertata a causa del covid-19 di numerosi medici dipendenti di strutture ospedaliere potrebbe, difatti, dipendere da carenze organizzative e gestionali derivate da scelte, poste in essere nell’interesse o a vantaggio dell’ente, di organi interni alle stesse.

Si pensi al possibile risparmio conseguente al mancato acquisto della totalità dei dispositivi di protezione individuali specifici (es. guanti, mascherine con filtro ffp2 o ffp3).

Accertamento che deve comprendere anche la valutazione della colpa organizzativa dell’ente, intesa quale omessa predisposizione di adeguati modelli idonei a prevenire, in tale fase, il rischio di contagio.

Pare opportuno concludere rilevando come la questione sull’applicabilità o meno all’ente ospedaliero della responsabilità 231 risulta forse ancora più dirimente nella fase prossima che ci prestiamo ad affrontare, in cui, verosimilmente, saranno commessi, da parte di un organo dello stesso, più di frequente anche ulteriori reati, come quelli ambientali, idonei a far sorgere la responsabilità amministrativa dell’ente ai sensi dell’art. 25undecies d.lgs. 231/2001 (es. smaltimento, senza autorizzazione, di rifiuti pericolosi utilizzati in tale fase).

Luigi Fimiani

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