1. Il percorso giurisprudenziale e normativo fino alla riforma
Con il decreto legge n. 161 del 2019, approvato il 30 dicembre 2019, convertito con legge n. 7 del 2020, il legislatore ha inteso estendere l’applicabilità del captatore informatico (c.d. Trojan) ai fini della ricerca della prova mediante mezzi intercettivi.
Va ricordato che le Sezioni Unite penali Scurato (n. 26889 del 28 aprile 2016) avevano affrontato il problema dell’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico in un dispositivo elettronico, rilevando che, quando si autorizza l’utilizzazione di questo strumento, si deve necessariamente prescindere dall’indicazione dei luoghi in cui la captazione deve avvenire, posto che è impossibile, per tale mezzo di indagine, una preventiva individuazione ed indicazione dei luoghi di interesse, data la natura itinerante dello strumento di indagine da utilizzare.
Le Sezioni Unite hanno richiamato l’art. 13, del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni in L. 12 luglio 1991, n. 203, come integrato dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306, in materia di criminalità mafiosa, emanato a seguito della strage di Capaci e convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 1992 (per il quale “quando si tratta di intercettazione di comunicazioni tra presenti disposta in un procedimento relativo ad un delitto di criminalità organizzata e che avvenga nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., l’intercettazione è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa”), affermando che l’intercettazione mediante captatore informatico è ammissibile nei soli procedimenti per i delitti di criminalità organizzata di cui a tale norma, in quanto solo essa consente la captazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità di preventiva individuazione ed indicazione di tali luoghi e prescindendo dalla dimostrazione che siano sedi di attività criminosa in atto.
Il D.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216 (c.d. decreto Orlando), aveva già modificato l’art. 266 c.p.p. con la disciplina espressa delle intercettazioni mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, ma l’entrata in vigore della modifica è stata più volte prorogata fino al D.L. n. 161/2019.
Lo stesso D.lgs. n. 216, art. 6, al comma 1, aveva, poi, esteso ai procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, le disposizioni di cui all’art. 13 del D.L. del 1991. L’estensione però non è stata integrale, perché il comma 2 aveva stabilito che, contrariamente a quanto previsto per i reati di criminalità organizzata, con riferimento ai reati contro la p.a., “l’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., non può essere eseguita mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo attività criminosa”.
La L. 9 gennaio 2019, n. 3, all’art. 1, comma 3, ha abrogato l’art. 6, comma 2, del D.lgs. n. 216 del 2017. Era pertanto venuta meno la restrizione dell’uso del captatore informatico nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., con la conseguenza che in essi l’intercettazione poteva essere eseguita anche se non vi era motivo di ritenere che vi fosse svolgendo attività criminosa.
Le Sezioni Unite civili n. 742/2020, nella nota vicenda disciplinare “Palamara”, hanno precisato che, con la c.d. “Spazzacorrotti”, il richiamo del comma 1 dell’art. 6, al D.L. 152 del 1991, art. 13, è divenuto integrale e non vi è diversità sul punto tra la disciplina in materia di intercettazioni per la criminalità organizzata e quella per i reati più gravi contro la pubblica amministrazione e che questa parte della L. 9 gennaio 2019, n. 3 è entrata in vigore il decimoquinto giorno dalla pubblicazione della legge sulla G.U., avvenuta il 16 gennaio 2019. Le stesse Sezioni Unite hanno inoltre respinto la tesi secondo cui, essendo stata differita la modifica dell’art. 266 c.p.p., operata dal D.lgs. n. 216, art. 4, in relazione alle intercettazioni mediante captatore informatico, neanche la disciplina introdotta dalla L. n. 3 del 2019 potesse trovare immediata applicazione, in quanto «la possibilità di utilizzare il captatore informatico preesiste e prescinde dalla modifica del testo codicistico operata dal D.lgs. n. 216 del 2017, art. 4, e deriva direttamente, come hanno precisato le Sezioni Unite penali, dal D.L. 152 del 1991, art. 13, norma il cui ambito di efficacia è stato esteso dal D.lgs. n. 261 del 2017, art. 6, anche ai più gravi reati contro la p.a. L’entrata in vigore di quest’ultima norma non è stata rinviata, così come è entrata in vigore secondo i termini ordinari la previsione della L. n. 3 del 2019, che ne ha eliso il comma 2».
2. Caratteri della novella legislativa
Con il D.L. n. 161 del 2019, conv. con modificazioni dalla legge n. 7 del 2020, l’utilizzo del captatore informatico per realizzare intercettazioni tra presenti è “sempre consentito” sia per i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., sia per i delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la stessa pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
Per quanto riguarda i reati contro la P.A., la nuova disposizione determina quindi un ampliamento dell’area di applicabilità del captatore informatico, stante l’estensione dai reati dei pubblici ufficiali anche a quelli degli “incaricati di pubblico servizio”.
Un ampliamento che è solo in parte bilanciato dalla previsione dell’art. 267, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. d), del D.L. n. 161 del 2019, secondo cui il decreto che autorizza l’intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile deve indicare le ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini in ogni caso e, quindi, anche se si procede per delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater e per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni (per gli altri reati occorre in aggiunta indicare i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono).
Elemento particolarmente indicativo è quello per il quale l’utilizzo del captatore informatico sia previsto a maglie più larghe per i citati reati contro la pubblica amministrazione rispetto a quelli di criminalità organizzata non ricompresi nell’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p., poiché per questi ultimi, qualora siano commessi nei luoghi di cui all’art. 614 c.p., è necessario che il decreto di autorizzazione indichi «i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono» (art. 267, co. 1, ultimo periodo, c.p.p.).
Infine, si consideri che il d.l. n. 161 del 2019 ha apportato una significativa modifica “anche” al regime di utilizzabilità delle intercettazioni tramite captatore informatico in procedimenti diversi. Infatti, il nuovo articolo 270, co. 1-bis, c.p.p. prevede che i risultati delle intercettazioni tramite trojan possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, se compresi tra quelli indicati dall’art. 266, comma 2-bis, c.p.p.
Ricostruito l’excursus normativo, risulta evidente come tale riforma si ponga nel solco della citata precedente legge n. 3 del 2019 (c.d. “Spazzacorrotti”), la quale, come indicato, non solo aveva dato impulso al maggior utilizzo del trojan per i reati in questione, ma, sotto altro profilo, aveva anche ampliato il novero dei reati c.d. ostativi all’applicazione delle c.d. misure alternative alla detenzione di cui all’art. 4 bis O.P., mediante l’introduzione, al comma 1, di gravi reati contro la pubblica amministrazione, come il peculato, la concussione o la corruzione propria ed impropria. Queste riforme implementano una disciplina di sfavore per i reati propri commessi contro la pubblica amministrazione, che ha peraltro inciso, negli ultimi anni, su plurime norme processuali di differenti istituti: si pensi anche agli artt. 444 co. 1-ter, c.p.p. e al 445, co. 1-ter, c.p.p., in tema di patteggiamento.
3. Considerazioni conclusive: una riforma davvero necessaria?
In definitiva, è possibile constatare come lo Stato abbia preso atto di come “dalla fenomenologia corruttiva – benché per lo più ambientata in contesti leciti di base – si paventano effetti similmente nocivi per l’economia, la crescita culturale e sociale di una nazione, le istituzioni ed i valori democratici, e finanche la disgregazione dello Stato di diritto” (Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in Dir. Pen. cont., 2019, fasc. 5, p. 247-248).
Ma spingersi così a fondo è davvero necessario?
Il captatore informatico, difatti, consiste in un programma informatico (software) basato sull’invio, da remoto, di un virus capace di installarsi autonomamente su qualsiasi apparecchio, smartphone, tablet, computer, smart tv, pertanto particolarmente invasivo sulla sfera privata del singolo individuo.
Orbene, basti considerare l’equipollenza, in plurimi aspetti, di tali reati a quelli mafiosi per comprendere l’irragionevolezza della recente disciplina. Come autorevolmente rilevato, difatti, “la pretesa assimilabilità fra mafia e reati contro la pubblica amministrazione è una correlazione sbagliata, perché la mafia si basa sulla violenza, la corruzione su un accordo illecito. Sbagliata proprio in radice” (Flick, in Cassazione Penale, 05, 2020, p. 1804, Intercettazioni, qui si colpisce la base della nostra civiltà. Guai a giocare sui diritti).
Dunque, quanto il comune sentire circa la scarsa lealtà dei pubblici ufficiali (politici in particolare) ha gravato su scelte così incisive su libertà fondamentali costituzionalmente tutelate, come quella della tutela alla riservatezza di cui all’art. 15 Cost.?
Pare illuminante a tal fine richiamare l’acuta considerazione, ante litteram rispetto alla riforma in commento, per la quale, ormai, “il diritto penale non è il prius che determina l’etica, ma è l’etica pubblica che fa espandere senza regole il sistema penale, determinando anche circuiti penali diversi. È l’etica pubblica che forza il perimetro della materia penale, altrimenti la certezza avrebbe il primato e potrebbe influenzare il sentire sociale” (Sgubbi, ne Il diritto penale totale, 2019, p. 28-29).
Orbene, l’evoluzione normativa della disciplina in questione è stata ampiamente richiamata in premessa proprio per dimostrare in concreto tale fenomenologia purtroppo dilagante.
Evoluzione normativa che, spinta da un’etica pubblica senza limiti e confini, non vede un limite, o meglio lo vede solo a vista, pronto ad essere superato per scriteriati consensi politici. È vero come i limiti sono fatti per essere superati, purtroppo, però, in questo caso il superamento degli stessi ha effetti solo negativi per libertà fondamentali che – almeno astrattamente – dovrebbero essere inviolabili.
Luigi Fimiani