3231 giorni. Questo è l’intervallo di tempo trascorso tra il 26 luglio 2012 ed oggi, 31 maggio 2021. Il 26 luglio di nove anni fa il giudice delle indagini preliminari di Taranto, Patrizia Todisco, a seguito di due perizie chimiche ed epidemiologiche, aveva firmato l’ordinanza di sequestro senza facoltà d’uso di tutti gli impianti dell’area a caldo dell’impianto siderurgico exILVA di Taranto, in ragione della “grave ed attualissima situazione di emergenza ambientale e sanitaria, imputabile alle emissioni inquinanti, convogliate, diffuse e fuggitive, dello stabilimento ILVA”. Il GIP aveva parlato di un “provvedimento doveroso per tutelare beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compromissioni di sorta, quali la salute o la vita umana”. Dopo il sequestro, il GIP aveva altresì disposto anche gli arresti domiciliari nei confronti di otto degli indagati, tra cui vari esponenti della famiglia Riva e quello di Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento tarantino dal 1995 al 2012, colpendo in tal modo i vertici dell’organigramma aziendale. Iniziava in quell’istante il processo “Ambiente Svenduto”. Oggi, 31 maggio 2021, 3231 giorni dopo, la Corte d’Assise di Taranto ha condannato a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, figli del patron Emilio (scomparso nel 2014), chiamati a rispondere di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. La Corte ha altresì disposto la confisca degli impianti.
Il 16 marzo 1995 lo Stato italiano siglò l’accordo con il gruppo Riva, leader italiano dell’acciaio, per la privatizzazione della più grande industria siderurgica europea, l’ILVA di Taranto. Dopo trentacinque anni di gestione pubblica, dal 1960 al 1995, lo stabilimento era passato, quindi, in mani private, con una proposta che fu considerata “più chiara e conveniente”.
Gli esponenti politici del periodo avevano esultato, aveva visto in quel passaggio di consegne un trionfo, un momento storico per Taranto, per il Meridione; la retorica degli “investimenti al Sud per rilanciare il Paese” aveva assuefatto e inebriato i tarantini, convinti che quello potesse essere l’inizio di una nuova era. Dal 2012, però, la storia dello stabilimento e, di conseguenza, della città di Taranto, è stata fortemente travagliata: l’immobilismo della politica, la questione economica unita a quella lavorativa, la presa di coscienza nazionale delle problematiche ambientali e sanitarie connesse allo stabilimento, la mancanza di un piano industriale e di rilancio a lungo respiro hanno condotto ad una stasi che è durata per anni. Si sono susseguiti proclami politici, si è inasprito lo scontro tra Magistratura e Governo, l’AIA è stata a più riprese rinnovata e modificata, l’ILVA è stata commissariata più volte e, infine, il 5 giugno 2017, il Governo Gentiloni ha accettato l’offerta del colosso franco indiano ArcelorMittal per una nuova privatizzazione dell’impianto. Quella che poteva essere una nuova alba per l’industria e la città jonica, invece, si è dimostrata essere nuovamente un’opportunità sprecata. Ben lontana dal rappresentare il rilancio economico e sociale sperato, la nuova privatizzazione ha segnato profondamente le dinamiche economico-sociali italiane, portando ad un acceso scontro tra il nuovo Governo a tinte giallo verdi guidato da Giuseppe Conte e la proprietà, rappresentata dall’amministratrice delegata Lucia Morselli. Davanti alle paventate minacce di un possibile recesso del colosso franco indiano dal contratto e alla possibilità di una causa scatenata dalla clausola dello “scudo penale”, prima introdotto e poi cancellato, considerato fondamentale da ArcelorMittal, il nuovo Governo Conte ha accettato di entrare nuovamente all’interno della proprietà dell’ILVA, con un accordo siglato l’11 dicembre scorso, sottoscritto da ArcelorMittal e da Invitalia, società controllata dal Ministero dell’economia e della finanza.
Ed oggi, 3231 giorni dopo, assistiamo ad una nuova alba, un punto fermo, nero su bianco di una sentenza, che colpisce i vertici dell’allora organigramma aziendale ed una confisca che si ripercuote sull’area a caldo. Nel merito delle sentenze, un disastro ambientale come quello dell’ILVA diventa dannoso e pericoloso per la pubblica incolumità soprattutto se reiterato costantemente negli anni e posto in essere con coscienza dai gruppi dirigenti, i quali hanno continuato a produrre massivamente nell’inosservanza delle norme di sicurezza dettate dalla legge e di quelle prescritte dai provvedimenti autorizzativi. Il prosieguo dell’offesa conduce a scenari di assoluta incontrollabilità: la latenza degli effetti e la smaterializzazione degli esiti intermedi del rischio produttivo non consentono neppure di rapportare il danno alla definita cornice spazio temporale del tempus et locus commissi delicti. In quest’ottica, il compiuto contrasto dell’offesa esige la neutralizzazione della fonte di rischio, ossia l’inibizione di un ciclo produttivo altamente rischioso. Ed è questo che la sentenza di oggi prova a fare: non sfamare la bestia della rabbia di Taranto, esponendo al pubblico ludibrio i vertici dell’impianto, ma porre un punto, provare ad arrestare un problema che perdura da decenni.
Per completezza espositiva con riferimento alla sentenza odierna, oltre Fabio e Nicola Riva, al responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, sono stati inflitti 21 anni e 6 mesi, sei mesi in meno all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso. Ai principali fiduciari dell’acciaieria – considerati una sorta di “governo ombra” dei Riva – sono stati inflitti 18 anni di pena, mentre l’ex governatore Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso, ha ricevuto una pena di 3 anni e 6 mesi. L’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, è stato condannato a 3 anni: era accusato di aver fatto pressione sui dirigenti della sua amministrazione perché concedessero l’autorizzazione all’ILVA per l’utilizzo di una discarica interna al sito (la Mater gratiae). Stessa pena per l’ex assessore provinciale all’ambiente, Michele Conserva. L’ex consulente della procura Lorenzo Liberti, imputato con l’accusa di aver accettato una tangente di 10mila euro per “ammorbidire” una perizia sul siderurgico, ha ricevuto una pena di 15 anni. Condannato a 2 anni per favoreggiamento anche l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato. Assolto invece il prefetto Bruno Ferrante, presidente ad interim dell’ILVA del periodo più difficile del siderurgico per la quale l’accusa aveva chiesto 17 anni.
Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore tarantino anzitempo scomparso, aveva affermato che “La fabbrica non dorme mai. È un concetto, questo, che ho fisso in testa, credo, da sempre. L’imponenza degli altiforni, il loro eterno lavorio, è un’immagine costante delle notti tarantine (…) Taranto finisce con il quartiere Tamburi, il resto è tutto ILVA. La campagna è violata dalla fabbrica e lei, la fabbrica, è sempre lì, sfinge metallica impassibile, fissa a osservare la città a cui ha dato lavoro e classe operaia e che ora lentamente sta conducendo con sé in una crisi irreversibile”. Oggi, 3231 giorni dopo, forse la fabbrica per un momento dormirà e si potrà immaginare qualcosa di diverso per Taranto.
Simone Spinelli
Trainee Lawyer
Studio Legale Napoletano&Partners