“Un appello di studiosi di diritto e procedura penale per una rinnovata attenzione al carcere. Come studiosi e docenti universitari di discipline penalistiche aderiamo, in un’ideale staffetta, allo sciopero della fame di Rita Bernardini (ex segretario nazionale dei Radicali e deputato della Repubblica), Irene Testa (attivista e tesoriere del Partito Radicale), Luigi Manconi (politico e sociologo), Sandro Veronesi e Roberto Saviano (scrittori) e di quasi tremila detenuti, quale forma di mobilitazione per chiedere al Governo e alle autorità competenti di adottare provvedimenti idonei a ridurre il più possibile il sovraffollamento delle carceri italiane così da prevenire il rischio di un’ulteriore diffusione del contagio da Coronavirus al loro interno”.
Inizia così l’appello degli studiosi di diritto penale e procedura penale promosso da Giovanni Fiandaca, Professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo e Garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, e da Massimo Donini, Professore ordinario di diritto penale presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, un appello di adesione all’iniziativa non violenta iniziata da Rita Bernardini il 10 novembre scorso con un numero significativo di adesioni nel mondo giurisprudenziale e non solo. L’appello parte del presupposto di voler sfruttare l’attuale situazione pandemica come volano per riaccendere i riflettori sul pianeta carcere, riprendendo la strada interrotta delle riforme, (il Governo Renzi nel 2014 ha ricevuto deleghe per ampliare la possibilità di scontare le condanne minori tramite pene alternative) con la proposta di un ampliamento delle forme di sanzione extra carcerarie. La critica, infatti, mossa all’attuale sistema è quella di utilizzare il carcere come pena ben oltre ciò che è strettamente necessario e lontana, soprattutto, dal fine sancito dall’art. 27, comma 3 della Costituzione, vale a dire quello di dover tendere alla rieducazione del condannato.
Le strutture carcerarie italiane, in troppi casi, si sono dimostrate non idonee a garantire il distanziamento sociale e fisico dei detenuti, misura divenuta essenziale nel quadro dell’attuale pandemia: in particolare, gli spazi, così come denunciato da numerosi direttori di carceri e garanti dei diritti dei detenuti, non sono sufficienti a permettere l’isolamento fiduciario ai detenuti positivi o di sospetta positività.
A ciò va aggiunto anche il numero ingente di addetti che quotidianamente entrano ed escono dalle strutture, come i poliziotti penitenziari ed il personale amministrativo e di gestione, creando in tal modo un inevitabile ponte di connessione tra la realtà interna del carcere e il mondo esterno.
Ad oggi, sono stati censiti 897 detenuti positivi al Covid-19 e più di un migliaio di operatori penitenziari. Un numero che, seppur contenuto, non deve assolutamente lasciare indifferenti. Le carceri, infatti, sono micro realtà, in cui la propagazione del virus, anche per limiti strutturali e spaziali delle strutture, risulta quanto mai facile.
Occorre ricordare che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per mezzo della Raccomandazione (92)16, rifacendosi al termine anglosassone community sanction, fornisce la seguente definizione di misura/sanzione alternativa o di comunità: sanzioni e misure che mantengono il condannato nella comunità ed implicano una certa restrizione della sua libertà attraverso l’imposizione di condizioni e/o obblighi e che sono eseguite dagli organi previsti dalle norme in vigore. Le misure alternative alla detenzione o di comunità, consistono nel seguire un determinato comportamento, definito possibilmente d’intesa fra il condannato e l’ufficio di esecuzione penale esterna che lo abbia preso in carico; il contenuto del comportamento da assumere è ciò che viene normalmente indicato come un “programma di trattamento”, espressione applicabile anche ai condannati posti in misura alternativa o di comunità. In Italia, le misure alternative alla detenzione o di comunità vengono introdotte dalla legge n. 354/1975, più volte riformata, che prevede l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la liberazione anticipata.
Nell’attuale scenario pandemico, occorrerebbe ripensare il modello stesso del carcere e delle misure detentive. Le soluzioni, in tal senso, potrebbero essere diverse: bloccare l’esecuzione delle sentenze definitive di condanna a pena detentiva, a meno che il condannato possa mettere in pericolo la vita propria o altrui; bloccare i provvedimenti di custodia cautelare in carcere laddove non siano strettamente necessari; aumentare da 45 a 75 i giorni per la liberazione anticipata, sempre che il condannato abbia tenuto una buona condotta; aumentare fino a ventiquattro mesi il periodo di pena detentiva in carcere che può essere permutata in detenzione domiciliata. Seguendo tali indirizzi, si potrebbero anche scongiurare ipotesi di provvedimenti più drastici quali l’amnistia e l’indulto.
Simone Spinelli
Trainee Lawyer
Napoletano Ficco&Partner Studio Legale